mercoledì 4 novembre 2009

Ireen


Ireen non cessa di fare domande mentre mi insegna a ritagliare da vecchi camici ospedalieri provenienti dall'Italia le camiciole per i bambini ricoverati.

Sono al Tharaka Hospital da 3 giorni: le giornate passano veloci mentre cerco di ambientarmi e di darmi da fare. Per ora io ed Emanuele - gli unici 2 a non avere nessuna formazione sanitaria - ci divertiamo in pediatria con i bambini. Al mattino si giocherella e si cerca di tenerli occupati, anche se è difficile raggrupparli tutti in un'unica attività diversi come sono l'uno dall'altro: diverse le età, diversi i disagi e i motivi per cui sono all'ospedale... alcuni sono immobilizzati a letto perchè con un arto ingessato, altri per via della debolezza data dalla malattia, altri invece saltellano di qua e di là con un occhio bendato o una pezza sul piede morso da un serpente velenoso...
Al pomeriggio la scuola li mette tutti assieme invece - almeno quelli che deambulano - e le mamme ci raggiungono in cerca di qualche 'story book' in inglese da leggere con una curiosità e uno stupore che poche volte ho visto negli occhi persino dei nostri ragazzini, oppure di un pezzo di carta e un libro per far di conto o scrivere dei deliziosi temini in inglese, che poi sei chiamato a correggere.

In tutta questa eccitante scoperta, al terzo giorno mi sento ancora di poter fare dell'altro e decido di rendermi più operativa: curiosando qua e là trovo Ireen e la sua vecchia Singer a pedali, chiusa in una stanzetta piena di zanzare con una finestrella dalla quale entra un puzzo di fogna a tratti insopportabile. Le offro un aiuto, ad Ireen, che alza lo sguardo dal pezzo di stoffa che sta cucendo e offre un volto aperto in un sorriso. Si, vuol dire si! Ho trovato un lavoro!

E' presto fatto: le forbici già in mano, una penna per segnare i contorni del taglio da seguire e Iree che mi spiega che le misure sono 2, una per i bebé e una per i bambini più grandicelli, come Candy o Matzuky. Ireen porta la divisa rosa delle Childrens' Sisters e mentre si muove nella stanzetta con le forbici in mano scuote le treccine rosse, dicendo che deve assolutamente finire di cucire un materasso per la stanza 1, foderarlo con la tela impermeabile. These are good materasses, mi dice, they come from Italy!
Mi chiede di aiutarla a trasportarlo nella stanza 1 per rimpiazzare quello che non ha retto i flussi urinari dei pazienti... mi sono dimenticata di indossare i guanti... strano come siano loro a ricordarmi le basilari norme igieniche. Cambiamo il materasso. E' davvero malridotto, perciò le chiedo se lo buttano ma Ireen strabuzza gli occhi e no senza ilarità mi risponde che ne avrebbe fatto dei cuscini.

Passo così 4 giorni: con Ireen nella stanzetta un po' buia e un po' puzzolente ad ascoltarla mentre racconta e racconta e racconta... cose che offuscano il mio sguardo su quella che pensavo la realtà, che mi chiudono in quella stanzetta per sempre, con il rumore del pedale della macchina da cucire e le zanzare, in sottofondo la voce di Ireen.

Mi racconta che la mamma è morta al fiume uccisa da un coccodrillo quando la sorella minore aveva solo 1 anno. Da allora – il padre alcolista e il marito lontano da una zia, per ragioni che non ha voluto spiegare – si occupa da sola dei due fratelli minori ancora in età scolare e di sua figlia Stefania. Mentre racconta e fa domande e ascolta con curiosità le risposte, le sue colleghe in uniforme rosa si fermano a curiosare sulla soglia, certo attratte dal chiacchiericcio ma anche dall’insolita presenza di una ‘mzungu’ nel laboratorio. Vogliono tutte sapere e Ireen, instancabilmente, con quella calma che me la fa ricordare con immenso affetto, ripete quanto appreso in kitharaka riducendolo a poche frasi salienti: età, famiglia, lavoro che per gli africani, sono tutto il loro universo.

Un giorno Ireen arriva al lavoro un po’ più trafelata: un cane ha morso un giovane studente nella sua proprietà e ora il ragazzo morso è lì, all’ospedale, per le prime cure e l’antirabbica. Non è agitata, piuttosto dispiaciuta ma il cane non è suo e di certo provvederà a farlo abbattere, visto che si trovava nella sua proprietà. Con la pacatezza che la distingue, racconta e per me è occasione per fare domande e trovare risposte: in questo caso, mi permetto di chiedere quanto costano le cure del ragazzo morso. Si parla di circa 6.000 shilingi, circa 60 Euro. Una somma piuttosto alta per chi lavora e guadagna in media 100 shilingi al giorno, cioè un euro.

Si prosegue nel lavoro anche fra le numerose pause e le chiacchiere. Chiedo ad Ireen se posso cucire assieme due pezzi di stoffa diversa per il davanti e il dietro di un uniforme di bimbo, Yes, no problem because it’s for hospital, afferma e commenta la risposta con il suo consueto mugugno affermativo: hmmm, solleva il mento verso l’alto, le labbra ben serrate e protese in avanti. Così la ricordo.

How old are you?, I am 32 Ireen. Oh, I thought you were 18!

Ireen: 22 anni, sola, una bimba e due fratellini da accudire

Viorica: 32 anni, sola e pensa solo a se stessa

Certo, questi 14 anni in meno che mi dai mi lusingano Ireen. Forse stai cercando di farmi un complimento. Ma se guardo alla mia vita e alla tua… beh, io ti credo.


venerdì 18 settembre 2009

Kitheri

Questo post è dedicato a tutti quei maligni che hanno sperato di vedermi ritornare con qualche chilo in meno della mia preziosissima ciccia di qualità dall'Africa.
Previsione tutt'altro che corretta: alla 'Casa del Tamarindo' la cucina era ottima e Margareth & Margareth, cuoche locali provette, ci viziavano ogni giorno con pane fatto in casa, pasta, pollo ruspante e chi più ne ha più ne metta. Un giorno sono persino riuscita ad assaggiare le loro famosissime polpettine, una delizia!
Ma tra tutto era il Kitheri che stimolava di più le nostre papille gustative: la zuppa di fagioli e mais che per loro è un piatto comune e fin troppo frequente, per noi era una vera festa per il palato e la sperimentavamo con il riso, il pane, raddoppiavamo le razioni, curiosavamo nelle pentole sul fuoco per vedere se il menu di quel giorno prevedeva la magnifica zuppa speziata.

E come privare voi di tanta bontà? non ho mancato di portare con me la 'segreta' ricetta della 'Zuppa della felicità' come la chiamo io.
Eccola qui.
Buon divertimento e buon appetito ;-)

KITHERI
1/2 kilo Malarugwe
1/2 kilo Maindi

Chumvi + manukato, kitunguu karote (3) viazi tano, nyanya (5) mafuta ya kupikia.

Jinzi ya kupika

Chukua mahindi na maragwe na nchanga nye pamoja. Osha vizuri mchanganyika mpaka uwe msafi.
Chukua maji lita (4) alafuku nunka kwa nyungu yenye utapikia na uweke yale mahindi na maharagwe oliuska.
Weka kwa jiko kwa masa mawili. Badaye chukua kitungu y ukaange na mafuka. Chukua viazi, nyanya karote halafu ukata vidogo vidogo na uweke kwa kitugu pamoje na chumvi na upilce - pia weka manukato yalco. Badaye tie kitheri pia pomoja.




lunedì 14 settembre 2009

Del Tharaka Hospital o almeno di quanto riesce ad introdurlo

La prima cosa che scorgi entrando a Matiri è l’ospedale. Sorprendono le bouganville fiorite nel deserto di terra rossa e sassi, che sbucano dal muro di cinta della struttura ospedaliera, un semplice agglomerato di rettangoli in muratura, curato e ben tenuto che apre i suoi cancelli al momento del bisogno, a malati giunti a piedi (talvolta si tratta di giornate di viaggio) o trasportati dall’ambulanza, e a noi, stanchi e impolverati.

Non c’è riposo: la curiosità è il motore instancabile di un’energia che esplode dai pori della pelle e ci guida fino all’ospedale per l’esplorazione, dopo aver rapidamente lasciato i bagagli alla ‘Casa del Tamarindo, la NOSTRA casa.

Salendo sono le narici a fare una prima esplorazione sensoriale di questo nuovo luogo e vengono sorprese da un forte odore che pare zolfo e che nei giorni successivi si ripresenterà nei più svariati momenti del giorno e della notte, portato dal vento, il nostro sollievo al caldo sole africano.

Chiara, l’ostetrica fiorentina e amica di Giacomo ed Emanuele, ci accoglie all’ingresso e subito ci porta in pediatria il luogo più colorato dell’ospedale, decorato da variopinti disegni alle pareti e dai sorrisi musicali dei bambini.

Pamela e Anna – la prima maestra d’asilo e la seconda neuropsicologa infantile – si muovono agilmente tra i bambini, che le riconoscono, le chiamano per nome e cantano con loro canzoni, che siano in italiano o in kitharaka.

Sono piccole scimmiette vivaci che guardano con curiosità i nuovi arrivati, li assillano di già, Caramella! Caramella!, con le frequenti richieste, e lamentano la partenza di altri volontari, che ricordano e che sono già passati di lì.

Si, perché molti di questi bambini sono degenti da settimane. Diverse le ragioni: chi vive lontano e per una semplice medicazione periodica deve restare, chi non è ancora guarito e chi più sfortunato ha una grave malattia, chi non ha i soldi per pagare l’ospedale (costa 1 Euro al giorno per la degenza più le cure mediche… hmm, cifra ridicola? Non molto se si pensa che uno stipendio medio lì è proprio di un euro al giorno e praticamente tutti lavorano solo saltuariamente) e chi, come Jane, è stata ‘dimenticata’ lì dalla madre per 3 mesi, che vive lontana e non ha soldi, e si lacera la ferita al piede procurata dal morso di serpente perché ‘non vuole guarire’, non vuole tornare a casa.

C'è di tutto qui, perchè fare un macabro elenco di quanto male abbiamo visto... Eppure... Eppure non si smetteva un attimo di correre avanti e indietro, di rispondere alle richieste delle scimmiette che volevano sempre qualcosa da fare, che volevano 'avere' da te, una penna un foglio, un palloncino, la tua macchina fotografica, che ti prendevano per mano e ti trascinavano avanti e indietro nel corridoio, che ti saltavano in groppa senza sosta - Candy era fenomenale in questo, ti sarebbe sempre stata in braccio ma con i suoi 3 anni nei panni della poppante proprio non ci stava bene - o si divertivano a farti i dispetti mentre eri impegnato in altro.

Non un minuto, non un minuto dal nostro ingresso in pediatria venivamo dimenticati da questi bambini: uno o l'altro, sempre attorno a cercarci e a curiosare, vedere cosa avremmo portato loro quel giorno. Un sorriso oggi Monene, ti basta? Certo non lenirà il tuo male ma oggi questo è quello che ti posso offrire...

E' uno strano universo quello della pediatria dove accanto ai bambini bazzicano le madri o i padri per lo più noncuranti dei bisogni dei figli ma anch'essi curiosi della presenza dei wazungi e anch'essi sempre a chiederti dalla maglietta a che tipo di trattamento chimico hai utilizzato per fare i capelli sooooooo smooth!!! e quanti anni hai, famiglia, figli, marito, fratello, sorella... a voler sapere della famiglia soprattutto, il loro nucleo vitale, tanto importante da non porter pensare che tu a 32 anni non ne abbia una!

Fine della nostra introduzione: qui, noi lavoreremo per le prossime settimane. Ancora non abbiamo ben chiari i nostri compiti ma è certo che sarà meraviglioso svegliarsi al mattino con il pensiero dell'accoglienza di questi occhi e di questi sorrisi.

Tuonane, a domani.



martedì 1 settembre 2009

Mwithi

Che confusione! Cercare di dare ordine alle storie, ai momenti, alle sensazioni, ai ricordi... Puah! La memoria è UNA e quando un'immagine si fa strada con violenza nella testa devi lasciarle spazio anche se alla 'cronologia dei fatti' non piace. I ricordi guizzano e sono taglienti come lame: gli occhi di Mwithi oggi si sono aperti un varco nella mia giornata e da ore sono lì che aspettano che manifesti questo nuovo incontro in qualche modo.

Mwithi, ti rivedo oggi nelle foto di Mwende e non posso che sospirare di sollievo: il viso finalmente sgonfio, i capelli sono meno radi e soprattutto, sei seduta! sul grembo di tua madre.

Mi sono arrabbiata con te.

Dal letto di Matzuki sul quale ho passato un pomeriggio intero sdraiata con una lavagnetta magica a farlo giocare - lui che a sukuru (scuola in kitharaka) non ci poteva andare perchè era 'appeso' a causa di una frattura o una lussazione... non lo so. So solo che per me quando l'ho sentito piangere dall'altra stanza non cambiava nulla. Per me era solo un bimbo che piangeva da solo legato ad un letto - ti guardavo, sdraiata di lato con la manina poggiata sotto la testa e gli occhi fissi inespressivi... e quelle mosche, che chissà perchè sceglievano proprio te come punto d'appoggio. Una caramella, una carezzina sul viso - ma che impressione toccare un corpicino che l'anima quasi non ce l'ha già più! - e una domanda: perchè? Perchè Mwithi così piccola hai già rinunciato alla vita?

She is refusing to eat, hanno detto le altre mamme della stanza, la tua sorrideva appoggiata allo stipite mentre mi osservava seduta accanto a te. Sorrideva, ma io pensavo che avrebbe potuto, DOVUTO fare di più. Sarebbe bastato anche sollevarti di lì o cambiare la tua posizione perchè un raggio di sole ti colpisse il viso entrando dalla finestra sopra il tuo letto, o anche solo per pulirti visto che da delle mezz'ore avevi i pantaloncini inzuppati di pipi.


Forse non sono più arrabbiata: lo sguardo nelle foto è vivace, pare tu stia seguendo il bingo in atto, chissà che confusione ed eccitazione in pediatria!
Hai forse lasciato che l'ossigeno ti entrasse di nuovo nei polmoni dando finalmente un ritmo al tuo respiro, hai forse allungato la mano per un po' di porridge e richiesto attenzione quando eri stanca di stare nel letto?
Forse questo è stato il tuo timido si alla vita... E mo', vediamo che succede...







Credits fotografici: Mwende.

giovedì 27 agosto 2009

Verso Matiri: la simbolica transumanza di Giacomo, Emanuele e Viorica



Sono 200 i km che ci apprestiamo ad affrontare, per raggiungere il Tharaka Hospital, quella che costituirà la nostra casa per le prossime settimane e ancora, non lo sappiamo, oltre.

Una lunga strada sconosciuta in una terra altrettanto sconosciuta per tutti e 3 che negli occhi assieme alla stanchezza portiamo curiosità ed eccitazione. La strada asfaltata addolcirà il viaggio per un po’ prima che le nostre natiche comincino a ballare sui sedili del pulmino di Kithinji: un percorso che si rivela ai nostri occhi assieme ai racconti della nostra piccola guida folle verso il distretto di Tharaka, un’area estremamente povera del Kenya a nord di Nairobi, che vive di pastorizia e – poca, pochissima – agricoltura.


E’ presto, ma uscendo da Nairobi la vita non cessa di manifestarsi nelle sue attività quotidiane, qui molto poco frenetiche, ma cariche del significato della sopravvivenza: via via che procediamo nel viaggio, i paesaggi incredibilmente differenti tra loro, sono musicati dalle persone affaccendate nei mercati, sul ciglio della strada, nei campi che di tanto in tanto s’incontrano, sulle soglie di casa. Ai piccoli villaggi si alternano zone meno abitate e qualche città più grande: una di queste Embu, ci viene segnalata da Kithinji, come una zona estremamente pericolosa, Se la macchina va in panne qui, dice ridendo, scappate, allontanatevi nel bush e non fatevi trovare: per rubarvi i pantaloni qui vi potrebbero uccidere! Dove c’è sviluppo e benessere aggiunge il mio autista al ritorno verso Nairobi terminato il mio volontariato, c’è criminalità.


Ma è a Embu che ci fermiamo per la prima colazione: un bar deserto e piuttosto grande, con tavolini di legno, un bancone con la sola cassa e un piccolo lavandino per lavarsi le mani ci propone caffé, tè e madazi, una focaccia di farina acqua e zucchero cotta in olio bollente, prima di lasciare definitivamente la strada asfaltata per quella dissestata di terra rossa, che diventerà un po’ il simbolo dell’Africa.


Ovunque, persone cariche di beni di sussistenza, taniche gialle per contenere l’acqua, beni di ogni genere camminano senza sosta ai lati della strada: percorsi lunghi e polverosi che segano le gambe e anche l’anima in cerca di un sollievo che sia cibo o altro. Le donne sono più frequenti negli avvistamenti, fanno il lavoro duro qui, i piedi stanchi e le spalle curve sotto il peso della merce. Anche i bambini sono numerosi… Chissà quanti km percorrono per raggiungere la scuola, ora che il sole sta salendo e comincia a scaldare. Qualche bicicletta, anche delle moto – i Piki Piki, sono utilizzati spesso anche come servizio taxi su due ruote – e la nostra prima scoperta di un detto keniano: Matatu ne matata, il matatu è un problema, come afferma scuotendo la testa Kithinji. Il matatu, quella giostra di neon e decorazioni vivacemente colorate che trasposta persone e assieme a loro, tutte le merci che si riescono a caricare in uno spazio ridottissimo tra polli, bambini e adulti accaldati. Una guida che lascia alquanto a desiderare e ti fa sperare di arrivare a destinazione.


C’è poco spazio sul nostro pulmino ma Kithinji si ferma a raccogliere una donna anziana che percorre la strada chissà verso dove: ci dice, che sicuramente starà raggiungendo il villaggio vicino (vicino, una parola grossa) per cercare del lavoro e dare da mangiare ai figli. E’ provata e la strada che intende percorrere è incredibilmente lunga per noi che abbiamo il sedere sempre appoggiato al sellino dello scooter o al sedile della macchina: quest’anno, l’area sta soffrendo di un’insolita siccità e anche quel poco che qui si raccoglieva grazie alle piccole colture, ha subito dei grossi danni. Si, la fame c’è, inutile lasciarsi ingannare dall’estremo sforzo energetico di questi viandanti.


Siamo stanchi e coperti di polvere rossa quando raggiungiamo Matiri, quella polvere che oltre ad essersi appiccicata ai vestiti, ad essersi infilata negli orifizi, abbiamo respirato fino a lasciarla depositare nei nostri polmoni e più indelebilmente, nelle nostre anime, che si scaldano grazie questo nuovo colore acquisito e che diventerà sempre più intenso. Ora a Matiri, la nostra simbolica transumanza verso un animo nuovo e caldo, trova concretamente il suo inizio.