mercoledì 4 novembre 2009

Ireen


Ireen non cessa di fare domande mentre mi insegna a ritagliare da vecchi camici ospedalieri provenienti dall'Italia le camiciole per i bambini ricoverati.

Sono al Tharaka Hospital da 3 giorni: le giornate passano veloci mentre cerco di ambientarmi e di darmi da fare. Per ora io ed Emanuele - gli unici 2 a non avere nessuna formazione sanitaria - ci divertiamo in pediatria con i bambini. Al mattino si giocherella e si cerca di tenerli occupati, anche se è difficile raggrupparli tutti in un'unica attività diversi come sono l'uno dall'altro: diverse le età, diversi i disagi e i motivi per cui sono all'ospedale... alcuni sono immobilizzati a letto perchè con un arto ingessato, altri per via della debolezza data dalla malattia, altri invece saltellano di qua e di là con un occhio bendato o una pezza sul piede morso da un serpente velenoso...
Al pomeriggio la scuola li mette tutti assieme invece - almeno quelli che deambulano - e le mamme ci raggiungono in cerca di qualche 'story book' in inglese da leggere con una curiosità e uno stupore che poche volte ho visto negli occhi persino dei nostri ragazzini, oppure di un pezzo di carta e un libro per far di conto o scrivere dei deliziosi temini in inglese, che poi sei chiamato a correggere.

In tutta questa eccitante scoperta, al terzo giorno mi sento ancora di poter fare dell'altro e decido di rendermi più operativa: curiosando qua e là trovo Ireen e la sua vecchia Singer a pedali, chiusa in una stanzetta piena di zanzare con una finestrella dalla quale entra un puzzo di fogna a tratti insopportabile. Le offro un aiuto, ad Ireen, che alza lo sguardo dal pezzo di stoffa che sta cucendo e offre un volto aperto in un sorriso. Si, vuol dire si! Ho trovato un lavoro!

E' presto fatto: le forbici già in mano, una penna per segnare i contorni del taglio da seguire e Iree che mi spiega che le misure sono 2, una per i bebé e una per i bambini più grandicelli, come Candy o Matzuky. Ireen porta la divisa rosa delle Childrens' Sisters e mentre si muove nella stanzetta con le forbici in mano scuote le treccine rosse, dicendo che deve assolutamente finire di cucire un materasso per la stanza 1, foderarlo con la tela impermeabile. These are good materasses, mi dice, they come from Italy!
Mi chiede di aiutarla a trasportarlo nella stanza 1 per rimpiazzare quello che non ha retto i flussi urinari dei pazienti... mi sono dimenticata di indossare i guanti... strano come siano loro a ricordarmi le basilari norme igieniche. Cambiamo il materasso. E' davvero malridotto, perciò le chiedo se lo buttano ma Ireen strabuzza gli occhi e no senza ilarità mi risponde che ne avrebbe fatto dei cuscini.

Passo così 4 giorni: con Ireen nella stanzetta un po' buia e un po' puzzolente ad ascoltarla mentre racconta e racconta e racconta... cose che offuscano il mio sguardo su quella che pensavo la realtà, che mi chiudono in quella stanzetta per sempre, con il rumore del pedale della macchina da cucire e le zanzare, in sottofondo la voce di Ireen.

Mi racconta che la mamma è morta al fiume uccisa da un coccodrillo quando la sorella minore aveva solo 1 anno. Da allora – il padre alcolista e il marito lontano da una zia, per ragioni che non ha voluto spiegare – si occupa da sola dei due fratelli minori ancora in età scolare e di sua figlia Stefania. Mentre racconta e fa domande e ascolta con curiosità le risposte, le sue colleghe in uniforme rosa si fermano a curiosare sulla soglia, certo attratte dal chiacchiericcio ma anche dall’insolita presenza di una ‘mzungu’ nel laboratorio. Vogliono tutte sapere e Ireen, instancabilmente, con quella calma che me la fa ricordare con immenso affetto, ripete quanto appreso in kitharaka riducendolo a poche frasi salienti: età, famiglia, lavoro che per gli africani, sono tutto il loro universo.

Un giorno Ireen arriva al lavoro un po’ più trafelata: un cane ha morso un giovane studente nella sua proprietà e ora il ragazzo morso è lì, all’ospedale, per le prime cure e l’antirabbica. Non è agitata, piuttosto dispiaciuta ma il cane non è suo e di certo provvederà a farlo abbattere, visto che si trovava nella sua proprietà. Con la pacatezza che la distingue, racconta e per me è occasione per fare domande e trovare risposte: in questo caso, mi permetto di chiedere quanto costano le cure del ragazzo morso. Si parla di circa 6.000 shilingi, circa 60 Euro. Una somma piuttosto alta per chi lavora e guadagna in media 100 shilingi al giorno, cioè un euro.

Si prosegue nel lavoro anche fra le numerose pause e le chiacchiere. Chiedo ad Ireen se posso cucire assieme due pezzi di stoffa diversa per il davanti e il dietro di un uniforme di bimbo, Yes, no problem because it’s for hospital, afferma e commenta la risposta con il suo consueto mugugno affermativo: hmmm, solleva il mento verso l’alto, le labbra ben serrate e protese in avanti. Così la ricordo.

How old are you?, I am 32 Ireen. Oh, I thought you were 18!

Ireen: 22 anni, sola, una bimba e due fratellini da accudire

Viorica: 32 anni, sola e pensa solo a se stessa

Certo, questi 14 anni in meno che mi dai mi lusingano Ireen. Forse stai cercando di farmi un complimento. Ma se guardo alla mia vita e alla tua… beh, io ti credo.


venerdì 18 settembre 2009

Kitheri

Questo post è dedicato a tutti quei maligni che hanno sperato di vedermi ritornare con qualche chilo in meno della mia preziosissima ciccia di qualità dall'Africa.
Previsione tutt'altro che corretta: alla 'Casa del Tamarindo' la cucina era ottima e Margareth & Margareth, cuoche locali provette, ci viziavano ogni giorno con pane fatto in casa, pasta, pollo ruspante e chi più ne ha più ne metta. Un giorno sono persino riuscita ad assaggiare le loro famosissime polpettine, una delizia!
Ma tra tutto era il Kitheri che stimolava di più le nostre papille gustative: la zuppa di fagioli e mais che per loro è un piatto comune e fin troppo frequente, per noi era una vera festa per il palato e la sperimentavamo con il riso, il pane, raddoppiavamo le razioni, curiosavamo nelle pentole sul fuoco per vedere se il menu di quel giorno prevedeva la magnifica zuppa speziata.

E come privare voi di tanta bontà? non ho mancato di portare con me la 'segreta' ricetta della 'Zuppa della felicità' come la chiamo io.
Eccola qui.
Buon divertimento e buon appetito ;-)

KITHERI
1/2 kilo Malarugwe
1/2 kilo Maindi

Chumvi + manukato, kitunguu karote (3) viazi tano, nyanya (5) mafuta ya kupikia.

Jinzi ya kupika

Chukua mahindi na maragwe na nchanga nye pamoja. Osha vizuri mchanganyika mpaka uwe msafi.
Chukua maji lita (4) alafuku nunka kwa nyungu yenye utapikia na uweke yale mahindi na maharagwe oliuska.
Weka kwa jiko kwa masa mawili. Badaye chukua kitungu y ukaange na mafuka. Chukua viazi, nyanya karote halafu ukata vidogo vidogo na uweke kwa kitugu pamoje na chumvi na upilce - pia weka manukato yalco. Badaye tie kitheri pia pomoja.




lunedì 14 settembre 2009

Del Tharaka Hospital o almeno di quanto riesce ad introdurlo

La prima cosa che scorgi entrando a Matiri è l’ospedale. Sorprendono le bouganville fiorite nel deserto di terra rossa e sassi, che sbucano dal muro di cinta della struttura ospedaliera, un semplice agglomerato di rettangoli in muratura, curato e ben tenuto che apre i suoi cancelli al momento del bisogno, a malati giunti a piedi (talvolta si tratta di giornate di viaggio) o trasportati dall’ambulanza, e a noi, stanchi e impolverati.

Non c’è riposo: la curiosità è il motore instancabile di un’energia che esplode dai pori della pelle e ci guida fino all’ospedale per l’esplorazione, dopo aver rapidamente lasciato i bagagli alla ‘Casa del Tamarindo, la NOSTRA casa.

Salendo sono le narici a fare una prima esplorazione sensoriale di questo nuovo luogo e vengono sorprese da un forte odore che pare zolfo e che nei giorni successivi si ripresenterà nei più svariati momenti del giorno e della notte, portato dal vento, il nostro sollievo al caldo sole africano.

Chiara, l’ostetrica fiorentina e amica di Giacomo ed Emanuele, ci accoglie all’ingresso e subito ci porta in pediatria il luogo più colorato dell’ospedale, decorato da variopinti disegni alle pareti e dai sorrisi musicali dei bambini.

Pamela e Anna – la prima maestra d’asilo e la seconda neuropsicologa infantile – si muovono agilmente tra i bambini, che le riconoscono, le chiamano per nome e cantano con loro canzoni, che siano in italiano o in kitharaka.

Sono piccole scimmiette vivaci che guardano con curiosità i nuovi arrivati, li assillano di già, Caramella! Caramella!, con le frequenti richieste, e lamentano la partenza di altri volontari, che ricordano e che sono già passati di lì.

Si, perché molti di questi bambini sono degenti da settimane. Diverse le ragioni: chi vive lontano e per una semplice medicazione periodica deve restare, chi non è ancora guarito e chi più sfortunato ha una grave malattia, chi non ha i soldi per pagare l’ospedale (costa 1 Euro al giorno per la degenza più le cure mediche… hmm, cifra ridicola? Non molto se si pensa che uno stipendio medio lì è proprio di un euro al giorno e praticamente tutti lavorano solo saltuariamente) e chi, come Jane, è stata ‘dimenticata’ lì dalla madre per 3 mesi, che vive lontana e non ha soldi, e si lacera la ferita al piede procurata dal morso di serpente perché ‘non vuole guarire’, non vuole tornare a casa.

C'è di tutto qui, perchè fare un macabro elenco di quanto male abbiamo visto... Eppure... Eppure non si smetteva un attimo di correre avanti e indietro, di rispondere alle richieste delle scimmiette che volevano sempre qualcosa da fare, che volevano 'avere' da te, una penna un foglio, un palloncino, la tua macchina fotografica, che ti prendevano per mano e ti trascinavano avanti e indietro nel corridoio, che ti saltavano in groppa senza sosta - Candy era fenomenale in questo, ti sarebbe sempre stata in braccio ma con i suoi 3 anni nei panni della poppante proprio non ci stava bene - o si divertivano a farti i dispetti mentre eri impegnato in altro.

Non un minuto, non un minuto dal nostro ingresso in pediatria venivamo dimenticati da questi bambini: uno o l'altro, sempre attorno a cercarci e a curiosare, vedere cosa avremmo portato loro quel giorno. Un sorriso oggi Monene, ti basta? Certo non lenirà il tuo male ma oggi questo è quello che ti posso offrire...

E' uno strano universo quello della pediatria dove accanto ai bambini bazzicano le madri o i padri per lo più noncuranti dei bisogni dei figli ma anch'essi curiosi della presenza dei wazungi e anch'essi sempre a chiederti dalla maglietta a che tipo di trattamento chimico hai utilizzato per fare i capelli sooooooo smooth!!! e quanti anni hai, famiglia, figli, marito, fratello, sorella... a voler sapere della famiglia soprattutto, il loro nucleo vitale, tanto importante da non porter pensare che tu a 32 anni non ne abbia una!

Fine della nostra introduzione: qui, noi lavoreremo per le prossime settimane. Ancora non abbiamo ben chiari i nostri compiti ma è certo che sarà meraviglioso svegliarsi al mattino con il pensiero dell'accoglienza di questi occhi e di questi sorrisi.

Tuonane, a domani.



martedì 1 settembre 2009

Mwithi

Che confusione! Cercare di dare ordine alle storie, ai momenti, alle sensazioni, ai ricordi... Puah! La memoria è UNA e quando un'immagine si fa strada con violenza nella testa devi lasciarle spazio anche se alla 'cronologia dei fatti' non piace. I ricordi guizzano e sono taglienti come lame: gli occhi di Mwithi oggi si sono aperti un varco nella mia giornata e da ore sono lì che aspettano che manifesti questo nuovo incontro in qualche modo.

Mwithi, ti rivedo oggi nelle foto di Mwende e non posso che sospirare di sollievo: il viso finalmente sgonfio, i capelli sono meno radi e soprattutto, sei seduta! sul grembo di tua madre.

Mi sono arrabbiata con te.

Dal letto di Matzuki sul quale ho passato un pomeriggio intero sdraiata con una lavagnetta magica a farlo giocare - lui che a sukuru (scuola in kitharaka) non ci poteva andare perchè era 'appeso' a causa di una frattura o una lussazione... non lo so. So solo che per me quando l'ho sentito piangere dall'altra stanza non cambiava nulla. Per me era solo un bimbo che piangeva da solo legato ad un letto - ti guardavo, sdraiata di lato con la manina poggiata sotto la testa e gli occhi fissi inespressivi... e quelle mosche, che chissà perchè sceglievano proprio te come punto d'appoggio. Una caramella, una carezzina sul viso - ma che impressione toccare un corpicino che l'anima quasi non ce l'ha già più! - e una domanda: perchè? Perchè Mwithi così piccola hai già rinunciato alla vita?

She is refusing to eat, hanno detto le altre mamme della stanza, la tua sorrideva appoggiata allo stipite mentre mi osservava seduta accanto a te. Sorrideva, ma io pensavo che avrebbe potuto, DOVUTO fare di più. Sarebbe bastato anche sollevarti di lì o cambiare la tua posizione perchè un raggio di sole ti colpisse il viso entrando dalla finestra sopra il tuo letto, o anche solo per pulirti visto che da delle mezz'ore avevi i pantaloncini inzuppati di pipi.


Forse non sono più arrabbiata: lo sguardo nelle foto è vivace, pare tu stia seguendo il bingo in atto, chissà che confusione ed eccitazione in pediatria!
Hai forse lasciato che l'ossigeno ti entrasse di nuovo nei polmoni dando finalmente un ritmo al tuo respiro, hai forse allungato la mano per un po' di porridge e richiesto attenzione quando eri stanca di stare nel letto?
Forse questo è stato il tuo timido si alla vita... E mo', vediamo che succede...







Credits fotografici: Mwende.

giovedì 27 agosto 2009

Verso Matiri: la simbolica transumanza di Giacomo, Emanuele e Viorica



Sono 200 i km che ci apprestiamo ad affrontare, per raggiungere il Tharaka Hospital, quella che costituirà la nostra casa per le prossime settimane e ancora, non lo sappiamo, oltre.

Una lunga strada sconosciuta in una terra altrettanto sconosciuta per tutti e 3 che negli occhi assieme alla stanchezza portiamo curiosità ed eccitazione. La strada asfaltata addolcirà il viaggio per un po’ prima che le nostre natiche comincino a ballare sui sedili del pulmino di Kithinji: un percorso che si rivela ai nostri occhi assieme ai racconti della nostra piccola guida folle verso il distretto di Tharaka, un’area estremamente povera del Kenya a nord di Nairobi, che vive di pastorizia e – poca, pochissima – agricoltura.


E’ presto, ma uscendo da Nairobi la vita non cessa di manifestarsi nelle sue attività quotidiane, qui molto poco frenetiche, ma cariche del significato della sopravvivenza: via via che procediamo nel viaggio, i paesaggi incredibilmente differenti tra loro, sono musicati dalle persone affaccendate nei mercati, sul ciglio della strada, nei campi che di tanto in tanto s’incontrano, sulle soglie di casa. Ai piccoli villaggi si alternano zone meno abitate e qualche città più grande: una di queste Embu, ci viene segnalata da Kithinji, come una zona estremamente pericolosa, Se la macchina va in panne qui, dice ridendo, scappate, allontanatevi nel bush e non fatevi trovare: per rubarvi i pantaloni qui vi potrebbero uccidere! Dove c’è sviluppo e benessere aggiunge il mio autista al ritorno verso Nairobi terminato il mio volontariato, c’è criminalità.


Ma è a Embu che ci fermiamo per la prima colazione: un bar deserto e piuttosto grande, con tavolini di legno, un bancone con la sola cassa e un piccolo lavandino per lavarsi le mani ci propone caffé, tè e madazi, una focaccia di farina acqua e zucchero cotta in olio bollente, prima di lasciare definitivamente la strada asfaltata per quella dissestata di terra rossa, che diventerà un po’ il simbolo dell’Africa.


Ovunque, persone cariche di beni di sussistenza, taniche gialle per contenere l’acqua, beni di ogni genere camminano senza sosta ai lati della strada: percorsi lunghi e polverosi che segano le gambe e anche l’anima in cerca di un sollievo che sia cibo o altro. Le donne sono più frequenti negli avvistamenti, fanno il lavoro duro qui, i piedi stanchi e le spalle curve sotto il peso della merce. Anche i bambini sono numerosi… Chissà quanti km percorrono per raggiungere la scuola, ora che il sole sta salendo e comincia a scaldare. Qualche bicicletta, anche delle moto – i Piki Piki, sono utilizzati spesso anche come servizio taxi su due ruote – e la nostra prima scoperta di un detto keniano: Matatu ne matata, il matatu è un problema, come afferma scuotendo la testa Kithinji. Il matatu, quella giostra di neon e decorazioni vivacemente colorate che trasposta persone e assieme a loro, tutte le merci che si riescono a caricare in uno spazio ridottissimo tra polli, bambini e adulti accaldati. Una guida che lascia alquanto a desiderare e ti fa sperare di arrivare a destinazione.


C’è poco spazio sul nostro pulmino ma Kithinji si ferma a raccogliere una donna anziana che percorre la strada chissà verso dove: ci dice, che sicuramente starà raggiungendo il villaggio vicino (vicino, una parola grossa) per cercare del lavoro e dare da mangiare ai figli. E’ provata e la strada che intende percorrere è incredibilmente lunga per noi che abbiamo il sedere sempre appoggiato al sellino dello scooter o al sedile della macchina: quest’anno, l’area sta soffrendo di un’insolita siccità e anche quel poco che qui si raccoglieva grazie alle piccole colture, ha subito dei grossi danni. Si, la fame c’è, inutile lasciarsi ingannare dall’estremo sforzo energetico di questi viandanti.


Siamo stanchi e coperti di polvere rossa quando raggiungiamo Matiri, quella polvere che oltre ad essersi appiccicata ai vestiti, ad essersi infilata negli orifizi, abbiamo respirato fino a lasciarla depositare nei nostri polmoni e più indelebilmente, nelle nostre anime, che si scaldano grazie questo nuovo colore acquisito e che diventerà sempre più intenso. Ora a Matiri, la nostra simbolica transumanza verso un animo nuovo e caldo, trova concretamente il suo inizio.



ChezVio: Karibu Kenya

http://www.youtube.com/watch?v=_VWBND1ggF8

sabato 15 agosto 2009

Milano-Nairobi: il lungo sonno

Il mio addio al consumismo lo do con un pranzo a base di patatine fritte e ketchup, Coca Cola e Mc Royal Deluxe ovviamente da Mc Donald's, in pieno stile frenetico occidentale.
All'aeroporto di Malpensa forse c'è più fila qui alle casse, che ai check-in...
A nulla sono valsi i lavaggi del cervello del buon Robert che per anni mi ha inculcato la genesi di un hamburger del Mac fino a farmi fare incubi che tra le due fette di pane vedevano topi cadaveri: dopo anni di attenta evasione dal simbolo del fast food per eccellenza ci casco ora, che dovrei già essere con la testa nel mondo di rinunce e sacrificio (così me lo immagino ma verrò presto smentita) del volontario in Kenya.
A tutto questo mi sono ridicolosamente preparata con uno zaino pieno di: salviette detergenti, rimedi naturali e non per qualsiasi tipo di malessere fino al magico spray protezione solare totale per la cute del capello... pareva superfluo, ma poi...
Con lo zaino minimal ma rivelatosi una borsa di Mary Poppins più tardi, non si può certo dire che il mio sia un salto nella vita spartana kenyota che immagino mi attenda, un tuffo nella sorpresa a 360 gradi, senza precauzioni.
Si parte preparati: tra consultazioni con amici/conoscenti che di esperienze analoghe ne hanno già fatte e hanno sempre la chicca per te che sei un iniziato, ricerche su internet che per la maggior parte delle volte finiscono nei forum di gente che s'improvvisa esperta e, last but not least, il rito delle vaccinazioni che inizia dal medico di base con un'antitetanica - fatta ancora sulla chiappa come quando avevo 8 anni, il vestito sollevato e gli slip leggermente abbassati quando mi dicono, che no! ormai da tempi immemori si fa solo sul braccio, il che mi fa dubitare della professionalità del mio medico curante, - e finisce in una corsia dell'ospedale Amedeo di Savoia di Torino, con 4 buchi sugli avambracci e un arto praticamente fuori uso per 24 ore.
Tralascio tutta la trafila profilassi antimalarica, che a mio rischio e pericolo ho ben pensato di fare 'alternativamente' con tutto quello che questo termine può implicare.
Imbarco il bagaglio e attendo: il volo è stato posticipato di un'ora e con questa in più, le ore di attesa si fanno 4 e per un'anima irrequieta e un po' spaventata tutto questo può trasformarsi in un consumo eccessivo di sigarette, un andirivieni dai bagni poco naturale e in shopping compulsivo che per mia fortuna si è limitato a gomme da masticare, tabacco, cartine e filtri ognuno acquistato a tappe presso un tabacchino diverso.
Per mia fortuna, è mia abitudine salire su di un aereo e cadere in uno stato profondo di coma, più o meno incosciente e disturbato di tanto in tanto solo dalla posizione scomoda: mi sveglia l'hostess che annuncia l'inizio della discesa al Cairo. Le luci della città diventano via via più nitide sotto di noi e la città si fa bella, tanto da invogliarti a fare uno stop notturno per lasciarsi abbagliare dai neon. Nel cielo, uno spicchio di luna talmente luminoso da sembrare ritagliato con la massima precisione da un telo nero dietro il quale punta un faro accecante. Una mezzaluna, che per me che faccio il mio primo ingresso nel mondo dell'Islam - seppure moderato - sembra il benvenuto più perfetto.
Il tempo di saltare da un gate all'altro e sono già sul volo successivo: quasi quasi il mio sonno continua mentre lascio che gli stewart di terra ci conducano gentilmente al nostro gate.
Il volo per Nairobi è quanto di meno variegato potessi trovare: no no, non sono tutti neri. Speravo in un primo assaggio di Africa nera già sul volo e invece mi ritrovo circondata da italiani, molti dei quali giovani e volontari come me. Ad ogni modo, dimentico presto quanto osservato e di nuovo mi risveglio ormai a Nairobi: rapido check del visto alla dogana, altrettanto rapido ritiro dei bagagli... allungo la testa verso l'uscita mentre cambio degli Euro in Shilingi e, giubilo! temevo di non trovare nessuno ad aspettarmi, Kithinji è lì, con un bel cartello con il mio nome in compagnia di Daniel.
Attendiamo Emanuele e Giacomo che saranno i miei compagni a Matiri nei prossimi giorni (eravamo sullo stesso volo ma nessuno era a conoscenza dell'esistenza dell'altro) e ci dirigiamo in auto verso l'uscita della città: siamo stanchi, ma nessuno vuole chiudere gli occhi, un po' per l'eccitazione, un po' per via di Kithinji che non chiude la bocca un secondo tra aneddoti e brevi lezioni di Swahili. Giacomo non capisce, ma sorride e fanno cenno di si con la testa... si lascia incantare da questo personaggio vivace che sprizza energie da tutti i pori alle 5 di mattina.
La città alle spalle, davanti a noi Matiri e l'ospedale e tutto quello che non conosciamo e siamo lì per scoprire. L'Africa ci dà il suo benvenuto e in alto di fronte a noi, una palla rossa di fuoco si alza rapidamente nel cielo rischiarandolo dall'oscurità notturna: uno spettacolo immenso tra i più belli che questa terra possa regalare, lei, che incanta e schiaccia il nostro sguardo abbagliato e impotente di umano che consapevole, si arrende di già di fronte alla maestosa e invincibile Natura africana.

mercoledì 8 luglio 2009

Chez Vio cambia pelle

Si, in effetti mi aspetto di diventare una mutante da un momento all'altro, con questa bella dose di vaccini che mi è stata iniettata questa mattina.

Non tutti sanno che - e questa pare la sezione curiosità alla fine dei miei noiosissimi comunicati stampa, un tentativo poco riuscito e persino patetico di rendere i ridondanti testi che produco per lavoro un minimo stuzzicanti - Vio sta partendo per un'esperienza di volontariato in Kenya


http://maps.google.it/maps?q=matiri&oe=utf-8&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF-8&sa=N&hl=it&tab=wl


Eccomi, sarò lì, proprio lì, dove punta la freccetta, a due passi dal Lago Victoria, che non vedrò, ma sono sicura che il vento me ne porterà l'odore, tra una corsa e l'altra nelle corsie dell'ospedale: motivazioni, evoluzioni, aneddoti, racconti, sensazioni, insomma TUTTO ma proprio TUTTO quanto può rientrare in un'esperienza di questo tipo, cercherò di raccontarlo su questo blog, che non a caso è rimasto lo stesso... capirete voi stessi il perchè, se un poco poco mi conoscete, nel corso della lettura. Aggiornerò quando possibile, più facilmente al ritorno in Italia e mi scuso da ora, se non riuscirò con questi racconti a strapparvi la risata per il suono della quale questo blog è nato e cresciuto...

Ma un sorriso sì, questo non me lo potete negare.


giovedì 26 marzo 2009

Cara Chez Vio

Cara Chez Vio,

non manco mai l’appuntamento con il tuo blog, spietato ma realistico sguardo sull’universo femminile di questi ultimi decenni, di cui mi ritrovo essere protagonista. Sono una giovane donna istruita e attraente, ammettiamolo pure, una di quelle a cui le occasioni di incontro non mancano mai. Dopo una periodo di treni presi al volo, di incontri fugaci senza impegno, ho deciso di sfruttare il benefico influsso di Venere sul mio segno di questi primi mesi dell’anno, per dare ‘una regolata’ alla mia dissoluta vita sentimentale e di riflettere prima della consumazione di un incontro, attraverso almeno un paio di appuntamenti di circospetta conoscenza reciproca. In poche parole, decisi di adottare un comportamento normale e degno delle più brave ragazze in circolazione.

Cara Chez Vio, perchè il destino mi è così avverso? Perché dopo il terzo appuntamento, fino al quale ancora ero riuscita a tenere a bada i tornadi ormonali con ardui esercizi di training autogeno e meditazioni zen, il baluba ha dato segni di calo d’interesse fino a sparire verso lidi più promettenti?

Mi domando quale il momento ideale per cedere e scatenare i propri impulsi sessuali se quando la dai subito sei classificata poco seria e inaffidabile e quando al contrario, aspetti fino al secondo appuntamento facendo la parte di quella che esita, vieni scaricata?

Delusa anonima trentenne

Carissima Delusa Anonima Trentenne,

comprendo il tuo sgomento e ti sono vicina. Se sei una di quelle che entro i primi 90 minuti palesa la propria disponibilità e lussuria, comprendo doppiamente e sono mortificata nel dover ammettere di non avere una risposta super partes alla tua domanda. Mi verrebbe da dire tra il primo e il secondo appuntamento, giusto per tagliare la testa al toro, ma la cosa andrebbe studiata più approfonditamente, perché così al brucio pare inverosimile.

Che fare se non cercare di comprendere da subito quali e quanti sforzi devono fatti per il soggetto in carica? Perché non chiederlo direttamente all’interessato?


Piacere Delusa Anonima Trentenne, piacere Gigi. Scusa quando vuoi che te la dia?


Tra l’altro questa sarebbe una domanda da includere nella top ten della lista delle domande da fare prima di equivocarsi in qualsivoglia maniera con la recluta assieme a: sai cucinare (alla quale la risposta è immancabilmente affermativa), chi ti stira le camicie, vivi da solo (inteso come: senza i genitori. Il dubbio è lecito anche si tratta di un ultra trentacinquenne), sei fidanzato (risposta necessariamente negativa se è furbo, cosa che capita di rado, tergiversa e s’arrampica malamente sugli specchi invece, se è nella media), dimensione del pene (nessun ipocrita mugugno di disapprovazione per favore) e durata media della prestazione.

Ah dimenticavo, Ti puzzano i piedi?, dettaglio da non sottovalutare soprattutto nel caso di donne dall’olfatto sopraffine (praticamente tutte).


Naturalmente, la proverbiale sensibilità e delicatezza delle donne non ci permette di soddisfare queste curiosità prima di perdere del tempo e delle energie e per arrivare alla risposta dei quesiti, sarà necessaria la solita paziente furbizia.

Per questo cara Delusa Anonima Trentenne, ti consiglio molto poco originalmente di seguire il tuo istinto, che se ti porta a smudandarti entri i primi 90/120 minuti, ha ragione almeno a beneficio dei tuoi ormoni se sei fortunata e delle persone che staranno attorno ad una Te sorridente ed euforica il giorno dopo.


N.B: Ogni riferimento a cose, persone e fatti realmente accaduti è del tutto casuale. Ricordo a chi legge, che il più delle volte non parlo di ME STESSA, ma vengo ispirata da conversazioni, osservazioni, situazioni non vissute in prima persona.


N.BB: Scusate l'N.B ma dovevo...

martedì 27 gennaio 2009

Il baccaglio del gambero

Lo so. Vi sono mancata.
Ma Vio is back e aspettava pazientemente di incarnarsi nel vaso che trabocca dopo la fatidica ultima goccia. Eh si, un’altra storia da raccontare impietosamente.
E in questo caso, osservo dall’alto: il balletto del gambero che più che andare avanti va indietro. Ora, tutti sanno che io sono ardente fautrice della ‘trombata e fuga’ per la quale, obiettivamente, pochi sforzi sono necessari. Qualche passo in avanti e il gioco è fatto: una bella soddisfacente, quando va bene, serata di sesso che strascichi ne lascia pochi, se non la soddisfazione di aver finalmente scaricato un po’ di quella energia accumulata dai turbamenti ormonali.
Saetta invece, - e se il soprannome affibbiato vi suggerisce qualcosa relativamente alle sue prestazioni, non… cioè, vi sbagliate – ha adottato una tecnica di baccaglio alquanto comune, quella che io chiamo ‘del gambero’. L’Uomo-gambero zompa verso la preda con salti e piroette da acrobata del circo: cose da non credere, farcite di ricchi premi e cotillon, che inevitabilmente ti fanno cadere nella trappola tesa con l’illusione che tutta quella energia investita nella fase di baccaglio, sia preludio di un contatto più approfondito e duraturo.
Falso. A ogni zompo in avanti corrispondono innumerevoli passetti all’indietro, incerti ma rapidi, anche un po’ ridicoli se vogliamo, che ti fanno immaginare sul volto del soggetto un’espressione colpevole e timorosa, di una reazione da parte tua incontrollabile e fuori misura.
Che fatica! Ora, l’umano non zompa e non cammina all’indietro per sua natura, perché mai volersi tramutare in un ibrido soprannaturale al fine di conquistare una donna, anche se solo per pochi attimi, impresa tra l’altro più facile di quel che sembra?
Funny enough la vicenda in sé e per sé… ma mi piace immaginarmi dall’alto mentre osservo un omino che fa salti mortali verso l’obiettivo seguiti da corsette all’indietro… zompa con aria sicura e virile e si ritira sguardo basso e spalle chiuse verso il torace. Se poi dall’alto, scorgi pure una evidente chierica sulla testa, la cosa si fa ancora più divertente.